Cronaca di un’ipotesi scritta in una lettera a Lancet Respiratory Medicine diventata allarme in Francia, proiettata al centro di un intenso dibattito tra pro e contro, con successiva mobilitazione di società scientifiche, enti regolatori del farmaco, esperti, per fare chiarezza e contrastare il panico tra i pazienti.

Tutto inizia l’11 marzo 2020 da una lettera che Lei Fang, Georg Karaliulakis e Michael Roth, ricercatori del Policlinico Universitario di Zurigo e dell’Università di Tessalonica, pubblicano su Lancet Respiratory Medicine. Nella lettera gli autori analizzano le prime tre serie di casi clinici di quasi 1300 pazienti cinesi contagiati gravemente dal COVID-19.

In sintesi: gli autori comunicano di aver notato che dall’analisi di circa 1300 casi di contagiati gravemente malati, tra il 12 e il 30% dei pazienti, a seconda dello studio, soffrivano di ipertensione e diabete, e ipotizzano che molti fra loro siano trattati con ACE inibitori. Riferiscono anche dati sperimentali su animali, secondo cui tassi più alti di espressione di un particolare enzima, noto come ACE2, possano aumentare il rischio di infezione da coronavirus. Questo enzima sarebbe aumentato a seguito di somministrazione di ACE inibitori. Da ultimo, sempre secondo dati su animali, riportano che la presenza di ACE2 può anche essere aumentata da ibuprofene. Il collegamento tra ACE2, coinvolto nell’”aggancio” del virus per entrare nelle cellule polmonari, renderebbe i dati esplosivi in un momento come questo. Infatti, secondo gli autori i malati cinesi che avevano ipertensione e diabete di certo facevano uso di ACE inibitori. Quindi, chiudono suggerendo di curare l’ipertensione con calcio-antagonisti che, a loro dire, non avrebbero questi potenziali effetti. La lettera si mantiene comunque su toni ipotetici interlocutori. Sta di fatto che in nessuno dei lavori da cui prende origine e che riferiscono delle casistiche cinesi si fa menzione delle terapie precedenti assunte dagli stessi.

Pochi giorni dopo, il 14 marzo il ministro della Salute francese Véran, scrive su Twitter che “prendere anti-infiammatori (ibuprofene, cortisone...) potrebbe essere un fattore aggravante dell'infezione. In caso di febbre, prendete del paracetamolo. Se assumete già anti-infiammatori o in caso di dubbio, chiedete consiglio al vostro medico.” La raccomandazione viene ripresa da Le Figaro Science e ribaltata su vari quotidiani e canali TV, oltre che sui social. Ne parlano The Guardian, The Telegraph, Daily Mail, Newsweek, CNN, le TV francesi, quotidiani turchi, arabi, israeliani, australiani ecc. Le fonti che avrebbe motivato il ministro alla dichiarazione sarebbero dei medici che hanno indicato alcuni casi di giovani contagiati dal coronavirus, consumatori abituali di FANS, viene citato il caso di una giovane vittima del COVID-19, un 28enne, reduce da intervento alla schiena, in terapia con FANS.

Nel mentre la British Pharmacology Society rilascia una dichiarazione, il 18 marzo 2020, in risposta alle “recenti preoccupazioni relative all'uso di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) in pazienti con COVID-19: al momento non ci sono abbastanza informazioni sull'uso dell'ibuprofene e COVID-19 per consigliare alle persone di smettere di usare i FANS. Ad oggi non ci sono prove scientifiche, pubblicate, che indichino che l'ibuprofene aumenta il rischio di contrarre COVID-19 o peggiora la malattia. Inoltre, non ci sono prove conclusive che l'assunzione di ibuprofene sia dannosa per altre infezioni respiratorie.”

Il 18 marzo l’OMS, twitta Based on currently available information, WHO does not recommend against the use of ibuprofen (In base alle informazioni esistenti, WHO non ha raccomandazioni contro l’uso di ibuprofen). E informa che si stanno consultando con i medici che hanno in cura pazienti con COVID-19, che non hanno notizia di effetti collaterali diversi da quelli noti, che pongono limitazioni al suo uso in alcuni pazienti che nulla hanno a che fare con il Coronavirus. Inizialmente, in vari giornali online era invece circolata l’informazione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla base delle segnalazioni dei funzionari francesi, avrebbe raccomandato di evitare l'assunzione di ibuprofene. Nel sito e nella pagina Twitter dell’OMS, che documenta puntualmente l’attività e le raccomandazioni OMS, non c’è traccia di questa dichiarazione.

Sempre il 18 marzo interviene anche l’Ema (l’Agenzia Europea dei Medicinali), maggiore organo competente in materia di farmaco, che fuga ogni dubbio con una nota ripresa anche dal Ministero della Salute italiano: “L’Ema è venuta a conoscenza di segnalazioni, in particolare dai social media, che sollevano dubbi sul fatto che l’assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), come l’ibuprofene, potrebbe peggiorare la malattia da coronavirus (COVID-19). Attualmente non vi sono prove scientifiche che stabiliscano una correlazione tra l’ibuprofene e il peggioramento del decorso della malattia da COVID-19. L’Ema sta monitorando attentamente la situazione e valuterà tutte le nuove informazioni che saranno disponibili su questo problema nel contesto della pandemia“.

“All’inizio del trattamento della febbre o del dolore in corso di malattia da COVID-19 – sottolinea il comunicato del Ministero della Salute – i pazienti e gli operatori sanitari devono considerare tutte le opzioni di trattamento disponibili, incluso il paracetamolo e i FANS. Ogni medicinale ha i suoi benefici e i suoi rischi come descritto nelle informazioni del prodotto e che devono essere prese in considerazione insieme alle linee guida europee, molte delle quali raccomandano il paracetamolo come opzione di primo trattamento nella febbre e nel dolore“.

Si potrebbe produrre una rassegna stampa ancora più estesa, perché effettivamente le dichiarazioni del ministro della Salute francese hanno innescato una notevole eco sulla stampa internazionale e sui social media (uno dei modi per avere informazioni di salute meno sicuri e diffusori di fake news, a meno che non siano pagine curate direttamente da istituzioni accreditate e da società scientifiche). Ci siamo limitati ai passi essenziali, tanto quanto basta per poter dire che, mai come in tempi di pandemia una comunicazione approssimativa, affrettata, può creare ancora più danni, innescando più disorientamento e timore tra i pazienti con patologie croniche, rispetto a quel che sarebbe potuto accadere in tempi normali.

Giustino Varrassi e Lorenza Saini

29 marzo 2020

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